
Arriva finalmente il giorno, questa volta il monte è troppo lontano per partire da casa il giorno stesso, di conseguenza nel caldo pomeriggio di venerdì partiamo alla volta della Provenza, io ed il mio “brother in madness” Stefano.
Il viaggio di avvicinamento, benchè in auto (con una moto sarebbe stato davvero strepitoso), è molto bello e ci regala panorami sempre diversi, dalle familiari Alpi del Monginevro, giù fino al placido lago di Embrun e poi via dentro i canyon du Lèoux dove sembra di stare in qualche parco nazionale degli stati uniti d’america data la bellezza selvaggia delle zone che si vanno ad attraversare: formazioni di roccia imponenti e acque limpide del fiume in fondovalle. Usciti dal canyon, anzi dalle “gorges”, si apre davanti a noi la Provenza. Non fosse per alcuni dettagli stradali e per le auto sarei certo di trovarmi in Toscana, dove ritrovo le stesse sfumature di colori con il verde acceso delle vigne e dei fichi, frapposto al marrone chiaro della terra e delle case nei borghi. In poche parole il paesaggio è nuovo ma sa di familiare, il che rende tutto ancora più intenso. E per finire, dopo una svolta ad una rotonda appare lui, il Mont Ventoux. E’ ormai sera, ma la punta è ancora assolata e rende quel bianco ancora più bianco ed è notevole come si distingua chiaramente l’osservatorio meteorologico posto in cima. Viaggiamo ancora ma faccio fatica a tenere lo sguardo sulla strada, il monte ci guarda e sembra dirci: “benvenuti, vi aspettavo”. Nel bagagliaio i nostri due zaini e (per la prima volta) due bici uguali, ma proprio uguali uguali, di quelle che si vedono nelle foto della Red Hook criterium o in qualche video di ragazzi che usano bici da pista al di fuori del loro contesto naturale del velodromo… ecco, la nostra idea domani è quella di scalare il versante più duro del Ventoux e ridiscendere dal lato opposto con due Cinelli Vigorelli: bici da pista, un solo rapporto (47/17) e nessun freno. Ma andiamo con ordine.
La mattina partiamo di buon ora per evitare le ore più calde. Le prime pedalate sono di riscaldamento su di un tratto poco trafficato lungo una decina di chilometri che ci permette di far girare le gambe a modo ed ascoltare le prime sensazioni in bici. Dopo poco arriviamo al paese di partenza, Bedoin, e da lì inizia l’ascesa. Siamo cauti ma entusiasti, ogni tanto un’occhiata al cardio per tener a bada l’entusiasmo e sin da subito vediamo di fronte a noi una lenta processione di altri gruppi di ciclisti che salgono. E’ un sabato qualunque d’estate, non ci sono manifestazioni particolari, ma non ho mai visto così tanta gente in bici come oggi, giunta da ogni parte del mondo per sfidarsi sul grande monte. Il sorpassare qualche gruppetto ci fa entusiasmare e pian piano il ritmo (anche cardiaco) sale… ma, come nei migliori film, arriva il primo colpo di scena.
Superate le ultime case, si arriva ad un tornante e si entra nel bosco. Avrebbero quasi potuto metter una stele in pietra con su scritto “lasciate ogni speranza o voi che entrate” magari in occitano, dato che siamo nel cuore di questa antica regione ora transnazionale. Dopo le prime rampe il dialogo tra me e Stefano diventa sempre più rarefatto fino a sparire del tutto. La strada ha una pendenza che non molla mai e si mantiene attorno ai 9-11% sempre… il contapedalate del mio Garmin sotto le 25rpm si rifiuta di darmi indicazioni precise ma qui ora tutto va a rilento, tranne il respiro. Abbiamo saggiamente montato entrambe dei manubri da mtb per avere più braccio di leva in fase di spinta e questo ci aiuta, ma pare non bastare. Il pensiero che si fa largo è: “ma è tutta così questa salita?”.
Non molliamo. Incontriamo una coppia di ragazzi (lui-lei) che salgono anch’essi cautamente, il ragazzo ci vede e dice alla sua compagna: “if they do it on a fixed gear, you can do it on a road bike!”. Sorridiamo a mezza bocca, ma è un grande stimolo a non mollare, ogni pedalata fatta lascia dietro un pezzo di strada per il momento da dimenticare, focalizzandoci su quello che si pone di fronte a noi.
Dopo un tempo che ci è parso interminabile, in realtà poco più di un’ore e un quarto, arriviamo allo chalet posto al bivio tra la salita del versante Bedoin e quella da Sault. E’ quasi come un’oasi in mezzo al deserto, meta e rifugio per i viandanti che qui sono praticamente tutti con un mezzo a due ruote. All’hotel ci avevano detto che quello era l’ultimo posto in cui rifornirsi di acqua e da lì fino alla cima non avremmo trovato altro. Il ristoro ci ridà forza anche morale e lo scenario che ora abbiamo di fronte è diametralmente opposto a quello fin d’ora attraversato. Stiamo per entrare nel tratto lunare, stiamo per percorrere gli ultimi sei chilometri che ci separano dall’osservatorio.
Da qui in poi, complici sia pendenze più umane sia l’avere sempre a vista la cima, cambia il nostro modo di pedalare. Siamo più sereni ma soprattutto più consapevoli di farcela, in qualche modo, ad arrivar fin su. Il collegamento occhi-cervello è saturo di traffico di informazioni: c’è il blu perfetto del cielo di oggi, il grigio scuro del nastro d’asfalto che taglia come una ferita il bianco dell’immensa pietraia davanti a noi, la vastità del panorama al di sotto della strada che costringe l’occhio a cercare quale sia il puntino di case da dove si era partiti al mattino, perso nella campagna provenzale che sembra ora così distante da noi e poi, letteralmente come ciliegina sulla torta, c’è quel pennacchio rosso sulla punta dell’osservatorio che si incastra nel blu del cielo come dipinta con una spatola.
Ci fermiamo qualche attimo al monumento di Tommy Simpson e poi via, gli ultimi 1200 metri di strada che facciamo in apnea, con la testa siamo già su, ora facciamo solo in modo che bici e gambe le raggiungano sotto il leggendario cartello pieno zeppo di stickers.
In vetta è una festa, ci sono ciclisti che si congratulano con noi, altri che avevano scommesso sulla nostra nazionalità vedendoci salire, altri ancora che ci guardano come alieni, senza sapere che in realtà siamo esattamente come loro, solo che abbiamo voluto fare un qualcosa di diverso affinchè la semplicità disarmante delle nostre bici ci facesse spostare il pensiero su altro che non fosse quale rapporto scegliere o con che cadenza procedere.
Ancora una volta questa salita è stato un tramite per poterci conoscere meglio e capire in profondità la bellezza nello stabilire un contatto tra terra e cielo attraverso di noi.
Rivediamo i ragazzi che avevamo incontrato nel tratto boscoso. Lui è un ragazzo di Tel Aviv in Francia per studi, ed è incredulo dal vedere due bici da pista quassù, ci vuole perfino fotografare! Gli spieghiamo che non siamo dei pro o super atleti, lo facciamo perchè abbiamo voglia e curiosità di sperimentare qualcosa di nuovo e sfidare noi stessi riuscendo anche a divertirci. Continuiamo la piacevole chiacchierata nel bar pochi metri sotto l’osservatorio. Poi arriva il tempo della discesa.
Partiamo molto carichi, ma scopriamo in breve che anche il lato verso Malaucene non è affatto banale. Sono, come per la salita, circa 20km con un tratto centrale al 10% costante. Quello che i profili altimetrici reperibili in rete non ci avevano raccontato è che proprio quel tratto centrale è asfaltato con una mescola bituminosa molto abrasiva e scura che rende difficile la tecnica di skid per far scivolare la ruota posteriore e gestire la derapata rallentando la bici. I muscoli iniziano a far male e ci vuole una bella dose di sangue freddo e tecnica per mantenere tutto nei ranghi della sicurezza. In fondo siamo due quarantenni con famiglia, non dei giovani supereroi. Per fortuna passata metà discesa tutto diventa più gestibile e da quel punto in poi, nonostante la fatica accumulata, ci si trova più a nostro agio a fare quello che sappiamo fare, scendere in controllo con la bici a scatto fisso, considerato che una discesa del genere fatta tutta a suon di skid ci avrebbe fatto distruggere i copertoncini posteriori e di certo non avevamo l’ammiraglia al seguito per un rapido cambio ruote.
Dei numerosi ciclisti che ci hanno sorpassato nella discesa, con nostra sorpresa, ne troviamo un gruppetto di 7-8 che ci aspettava al fondo, sia per complimentarsi sia per farci un bel po’ di domande tecniche in merito a rapporti, velocità di discesa, cadenze e gomme usate. Siamo lieti di far quattro chiacchiere con loro, in un misto anglo-francese gesticolato, e di sapere che ora da qui manca solo qualche dolce chilometro all’arrivo in hotel dove ci aspettano una doccia ed un pasto rigeneranti.
Gli ultimi tratti di strada scorrono via veloci in mezzo al paesaggio che ora mi colpisce per i profumi che ci arrivano: uva, fichi, lavanda e resina di pino. Tutto mescolato dal vento (che comunque oggi è stato molto clemente) e con la temperatura che ora inizia a farsi importante, sopra i 30°.